Inflazione, rialzo tassi, aumento dei rendimenti. Proviamo a fare il punto.
I notiziari in questi giorni sono, a ragione, occupati dalle notizie provenienti dal conflitto in Ucraina. Nel frattempo economia e mercati continuano a lavorare, tenendo gli occhi puntati sulla guerra, ma non solo. E’ proprio in questi giorni che il fermento sul mercato monetario si sta interrogando sui livelli futuri di inflazione, e di conseguenza sulle mosse delle Banche Centrali che invero hanno già cominciato ad agire.
In questi due anni siamo stati purtroppo costretti a familiarizzare con i termini che la pandemia ci ha imposto, tra chiusure, stop lavorativi ed economia in difficoltà. Non fosse bastato, si è aggiunto il folle conflitto Ucraina (Occidente) – Russia. Dal punto di vista economico ciò si è tradotto in un calo marcato del PIL (ancora oggi dobbiamo tornare ai livelli pre-pandemia del PIL), un’inflazione determinata dapprima dalla ripresa irruenta della domanda e dell’attività economica e successivamente dallo stesso conflitto in Ucraina.
Oggi tiene banco il discorso legato all’inflazione, motivo per cui si sente (nei titoli di coda) delle mosse delle banche centrali, ma cerchiamo di capire a cosa dobbiamo guardare facendo un salto indietro di due anni: gli Stati, per “tamponare” gli effetti della pandemia, sono stati giustamente costretti ad aumentare la spesa senza poter incidere sulle entrate derivanti da imposte e tasse, ma andando ad aumentare la mole del debito pubblico, in alcuni casi come quello italiano già molto alto in proporzione al PIL. Questo è un nodo cruciale, e proprio questo è un nodo che è stato creato (ripeto giustamente) nel 2020 per essere sciolto in un momento successivo. Bene, oggi siamo al momento in cui quel nodo sta venendo al pettine. Le banche centrali, convinte anche da un’inflazione prossima allo zero, hanno rivisto i percorsi di restrizione monetaria precedentemente intrapresi per sostenere facilitazioni monetarie e acquisti di debito, concedendo respiro agli spazi di manovra fiscale degli Stati. Come scritto in precedenza, per una serie di ragioni questo si è tradotto in un’inflazione esasperata.
L’inflazione è necessaria, tanto più con una mole di debito elevata, perché inflazione significa svalutazione del debito in termini reali. Non vanno quindi intese come un errore di sprovvedutezza, a mio avviso, le dichiarazioni di settembre/ottobre dell’anno scorso del presidente della FED e della BCE rispetto alla temporaneità dell’inflazione. Era, sempre secondo il mio parere, il temporeggiare di due banchieri centrali (comunque perfettibili dal punto di vista della comunicazione) per evitare di effettuare anzitempo mosse di restrizione monetaria. Le ragioni della globalizzazione degli ultimi vent’anni hanno portato ad una forte connessione delle catene produttive, con una complessità abnorme, che si è tradotta in un sistema retto da un equilibrio molto sottile. Con picchi di domanda – e catene di approvvigionamento che ricalcano il modello Just in Time giapponese – si creano strozzature sull’offerta, e conseguente aumento dei prezzi. In mezzo ci si è messa la guerra in Ucraina, con un’esplosione dei costi energetici. Ricordiamo in merito che abbiamo un’inflazione “buona”, determinata da aumento della domanda a seguito di aumento dell’occupazione e dei salari, e un’inflazione “cattiva” (inflazione importata), determinata in questo frangente dall’aumento dell’energia. Ecco che quel nodo sta venendo al pettine: stiamo pagando le conseguenze dell’oggi, ma anche di quanto fatto negli ultimi anni tramite il debito. L’inflazione è il mezzo per ripagare i debiti, ma l’inflazione ha un limite di tollerabilità oltre il quale le imprese – specialmente a fronte dei costi di produzione – sono costrette a fermarsi. E ha un limite di tollerabilità oltre il quale i consumatori riducono gli acquisti per gli eccessivi costi dei prodotti finali.
Oggi siamo in quella fase: l’inflazione è esageratamente alta, e le Banche Centrali sono costrette ad intervenire. Mercoledì 4 maggio Jerome Powell, Presidente della FED, ha dato corso alla preannunciata restrizione monetaria, con un secondo aumento dello 0,5% del tasso di riferimento (range attuale 0,75–1). Seguiranno altri aumenti nel corso dell’anno, e presto la BCE calcherà gli stessi passi. Sui mercati finanziari questo era già stato anticipato (i mercati in questo momento stanno prezzando lo scenario futuro da qui a 6-12 mesi). Cosa significa questo concretamente? In primis un aumento dei rendimenti sui titoli di stato e sui bond corporate, e in seconda istanza una riduzione dei corsi azionari in vista di una riduzione degli utili.
Il rendimento del titolo di Stato americano a 10 anni è raddoppiato dall’1,543% di inizio anno al 3,02% odierno. Giova ricordare in questo caso il funzionamento del mercato obbligazionario: a fronte di un aumento dei tassi per i titoli di nuova emissione, si venderanno i titoli con rendimento all’1,543% per acquistare i titoli che rendono il 3,02%. E si venderanno fintanto che il prezzo del primo titolo non avrà raggiunto lo stesso rendimento dei titoli di nuova emissione. Se prendiamo ad esempio il BTP decennale (scadenza 1 giugno 2032) ha perso circa il 14% da inizio anno (e non dimentichiamo che scontiamo qua il rischio tassi senza considerare il rischio emittente che si inasprirà con l’avvicinarsi delle elezioni del 2023).
Le azioni non se la sono passata meglio, e anche qua, anticipando gli eventi di 6-12 mesi, i mercati sono scesi in modo marcato. Prendendo l’indice di riferimento americano, l’S&P500, è stato lasciato sul terreno oltre il 16%, con il solo mese di marzo chiuso in positivo, e gli altri tre mesi archiviati in negativo. Addirittura peggio se l’è passata l’indice dei tecnologici, perdendo da inizio anno oltre il 25%.
In queste cattive notizie cerchiamo di trarre alcune conclusioni:
- In finanza non esistono o quasi i porti sicuri;
- La diversificazione paga;
- Mosse avventate rischiano di fare danni irreparabili (letteralmente irreparabili);
- Non investire non preserva dai rischi;
- I mercati stanno già scontando una parte di quanto stiamo raccontando.
I portafogli da inizio anno sono mediamente in perdita, ma perdono molto meno del mercato azionario, e addirittura notevolmente meno di un BTP a dieci anni. Questi effetti sono dati dalla diversificazione, che consente di evitare a priori – ovvero nel momento in cui l’investimento viene effettuato – i pensieri che vengono in momenti più complessi come questo. Il fatto di essere coscienti di aver fatto gli investimenti con oculatezza nel momento in cui sono stati effettuati evita di intervenire riparando danni, con una conseguente percentuale statistica molto elevata di fare disastri al portafoglio. In molti si interrogano se non fosse stato meglio non investire e lasciare il denaro sul conto corrente, ma questo si sarebbe tradotto in una perdita dell’8% determinata dall’erosione dell’inflazione. Semplificando all’estremo, possiamo affermare che aver lasciato il denaro sul conto corrente e averli invece investiti ha generato lo stesso risultato (ricordiamo che l’inflazione è dell’8%), ed è vero che nel caso degli investimenti le due perdite teoriche si sommano, ma la differenza è che gli investimenti non perdono fintanto che non vengono liquidati, ed è doppiamente vero che, salvo errori grossolani sull’asset allocation, recuperano abbondantemente quanto lasciato sul terreno ripagando dell’inflazione, cosa che non avviene per il denaro sul conto corrente, per il quale si dovrebbe sperare in un’improbabile deflazione dell’8% al fine di rientrare della perdita.
Le facili ma non scontate conclusioni sono che ogni momento di difficoltà sui mercati ha avuto le proprie peculiarità, ma dubbi, patemi, speranze, interrogativi sono gli stessi ogni volta. Ciò che non cambia, e non deve cambiare fino a prova contraria, sono gli assiomi che regolano gli investimenti: corretta identificazione del profilo di rischio e della tolleranza alle perdite, opportuna diversificazione, focalizzazione sugli obiettivi di investimento di medio-lungo periodo non facendosi travolgere dall’emotività del momento.
Luca Giordani
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