Il ritorno alla normalità e i suoi costi
Vi ricordate quando poco più di due anni fa agognavamo l’inflazione, e molti si chiedevano dove fosse la convenienza in prezzi che crescevano? Ecco, non abbiamo avuto modo di testare il perché una crescita fisiologica sia da includere tra gli elementi di un’economia sana, proprio oggi che l’inflazione rischia di avere la coda di una seconda cifra. Sia negli Stati Uniti che nell’Area Euro l’inflazione tocca livelli che non vedeva da quarant’anni.
Ma perché l’inflazione serve? Per un approfondimento rimando all’articolo scritto un paio di anni fa Come le Banche Centrali possono influenzare le nostre scelte di investimento.
Ma per riassumere l’inflazione ha un significato diretto di economia che cresce, e dall’altro ha un’utilità nella svalutazione del debito reale. Inoltre l’inflazione, oltre ad una componente matematica, porta con sé una serie di valutazioni secondo le quali i consumatori acquistano oggi i prodotti che domani potrebbero costare di più. Esattamente l’opposto di quanto avviene con la deflazione, che è sinonimo di un’economia che è in grado di immettere sul mercato prodotti ad un prezzo basso (presumibilmente, tra l’altro, per un’elevata automazione nei processi produttivi, o per salari bassi e contratti), e che in virtù di prezzi in ribasso altro non incentiva se non il rimandare l’acquisto di un bene che domani costerà meno.
Le cause dell’inflazione
Alcune analisi mostrano per le tre principali economie occidentali (USA, GB e Euro Area) il contributo alla crescita dell’inflazione ripartito tra energia, salari, alloggi e catene di approvvigionamento. Questa rappresenta in modo evidente il significato di inflazione come conseguenza di una crescita sana o meno, perché negli Stati Uniti, ad esempio, la ripartizione tra queste quattro componenti dell’inflazione è quasi equipesata, mentre in Gran Bretagna, e in misura maggiore in Europa, si fa evidente come il contributo all’inflazione sia determinato principalmente dal rincaro dell’energia e in misura molto ridotta dall’aumento dei salari. Questo è significativo: non paghiamo di più i prodotti che consumiamo perché guadagniamo di più, ma perché ci costa di più l’energia che impieghiamo per produrli, e notoriamente l’Europa non è area produttrice di materie prime energetiche.
Le politiche monetarie
Ma… per tornare al succo di quanto a noi interessa, gli investimenti, concentriamoci sulle politiche monetarie e le banche centrali. Il governatore della Fed un paio di anni fa tracciò il percorso della politica monetaria nella direzione di tollerare dati sull’inflazione che superassero il target stabilito. Un anno fa sia Powell che Lagarde ci invitavano a considerare transitoria l’inflazione, e questo unicamente, a mio avviso, per una ragione: consentire ai debiti pubblici di essere riassorbiti dalla crescita economica. Il limite di tollerabilità poteva essere un rialzo dei prezzi temporaneo che si avvicinasse al 6%, per non compromettere la crescita con politiche di restrizione monetaria. Inutile dire che il mercato si è accorto ben prima di quanto l’economia fosse in surriscaldamento, e quindi che l’inflazione avrebbe raggiunto livelli elevati. In conseguenza di ciò, complice anche una sensazione di incertezza – leggi insipienza – proveniente dalle banche centrali, gli operatori finanziari hanno cominciato a fare un’operazione di maquillage sui titoli, iniziando col vendere l’azionario in ipercomprato (ad esempio i tecnologici che avevano vissuto due anni di grande crescita), nonché l’obbligazionario, ivi comprese le brevi scadenze, che hanno portato ad un certo punto alla cosiddetta “inversione della curva dei rendimenti”, ovvero un titolo di stato americano a due anni rende più del titolo con scadenza a 5 anni. L’inversione della curva dei rendimenti viene considerata da più parti uno dei segnali anticipatori di recessione, ma è un’osservazione statistica rispetto al passato, non un dato che possa influenzare (o essere influenzato da altre dinamiche economiche anticipatorie di recessione) il ciclo economico.
Il fronte BCE
Ieri la BCE, dopo una decade, ha rialzato i tassi di interesse di due quarti di punto, e la Federal Reserve, che è avanti di tre volte tanto, si appresta ad ulteriori rialzi. Se però l’effetto dei rialzi operati negli Stati Uniti sarà più incisivo, non altrettanto si può dire per i rialzi operati dalla BCE, essendo l’inflazione europea di fatto “importata” (cioè derivante dall’aumento del prezzo dell’energia e non dal ciclo economico robusto che ha portato ad un aumento dei salari). E’ chiaro quindi che molto dipenderà da quanto avviene sul fronte monetario statunitense, e per quanto attiene l’Europa quanto avviene a livello di gestione delle politiche di approvvigionamento energetico, ivi compresi i risvolti derivanti dal conflitto Russia – Ucraina. Non dimentichiamo poi un altro elemento che non ha secondaria importanza: il rialzo del dollaro, valuta con la quale vengono scambiate le principali materie prime.
Menzione particolare merita il nuovo strumento comunicato ieri dalla BCE: il TPI (Transimission Protection Instrument). Si tratta del cosiddetto “scudo antispread”, che servirà a tenere sotto controllo l’allargamento degli spread sui rendimenti dei debiti pubblici nazionali. Attraverso questo strumento la BCE si riserva la possibilità, su base discrezionale, di acquistare titoli di debito pubblico per calmierarne i prezzi. Ma attenzione, non si tratta di una rete di protezione che debba esonerare i governi nazionali dalle proprie responsabilità, essendo comunque giustamente previsti alcuni requisiti che i Paesi devono rispettare: la sostenibilità del proprio debito pubblico, non essere in procedura di disavanzo, il rispetto degli impegni assunti rispetto al PNRR.
Non ci addentriamo qua nel riposizionamento geopolitico a livello globale, ma ricordiamo di quanto l’equilibrio alimentare a livello globale sia in questo momento precario, a causa principalmente di quanto sta avvenendo con la guerra in Ucraina, e con quanti decidono o decideranno di accodarsi ad un fronte anti Patto Atlantico.
Per riassumere: quali le variabili da tenere sotto osservazione?
Per addentrarsi nel bosco delle ipotesi, non è improbabile che le Banche Centrali, in enorme ritardo rispetto alle proprie decisioni di politica monetaria, siano disposte a tollerare uno o due trimestri di recessione per generare un effetto shock sull’inflazione e rideterminare la propria indipendenza, che appariva un po’ persa per strada. Ed è probabile siano disposte a tollerarle come effetto collaterale per riportare in equilibrio la dinamica della crescita e dell’inflazione, esattamente allo stesso modo in cui hanno tollerato oltremodo un’inflazione elevata per mantenere in equilibrio le dinamiche dei debiti pubblici.
Sarà quindi importante osservare cosa accadrà sul fronte Ucraino, per diversi aspetti: dagli approvvigionamenti alimentari (verso il Nord Africa in particolare) a quanto accade a livello energetico, passando per le future alleanze sullo scacchiere globale (quale ruolo per la Cina, ad esempio?). Ovviamente questo avrà importanza anche a livello europeo, per capire quanto sia compatta la politica dell’Unione e quanto sia forte l’intento di perseguire l’unità europea. Ovviamente quest’ultimo discorso mal si prende con le crisi di governo, che ad esempio oggi tratteggiano il nostro paese.
Le previsioni sono fatte per essere smentite, perciò azzardarle significa semplicemente verificare di quanto si sia lontani rispetto alle proprie congetture, ma ogni minimo segnale di raffreddamento dell’inflazione sarà un chiaro segnale per ponderare con più oculatezza le restrizioni monetarie, dal momento che non ci si possono permettere rallentamenti troppo decisi delle economie nazionali.
A livello di portafogli probabilmente le composizioni classiche fatte di 40 azioni e 60 obbligazioni hanno toccato il fondo, e i valori ad oggi osservati rappresentano con ogni probabilità i minimi, dal momento che non è da escludere un ulteriore ribasso dei mercati azionari, che sarebbe però compensato dalla ripresa della parte obbligazionaria che pare invece aver trovato la terra sulla quale poggiare i piedi del ribasso.
Un’ultima nota, che probabilmente non ha significato ma che mi ha colpito nell’osservarlo: i tassi di cambio delle principali valute occidentali, vale a dire Dollaro, Euro, Sterlina e Franco Svizzero stanno convergendo. Ho sempre sostenuto che vedevo nel futuro il venir meno del tasso di cambio come leva per le economie nazionali: è ovvio che questo è nulla più che un mio desiderata, ed è altrettanto ovvio che questo sarebbe un passaggio politico più che economico, ma proprio perché è nei miei auspici ho fatto caso a questa convergenza.
Luca Giordani
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